“Non aggiungere giorni alla vita, ma dare più vita ai giorni”. Questa citazione della pioniera degli hospice, l’infermiera britannica Cecily Saunders, incarna alla perfezione la filosofia adottata all’interno dell’Hospice “Aurelio Marena” da medici, operatori sociosanitari, infermieri e volontari. Nel decimo anniversario di attività del centro per malati terminati (che ricorrerà il prossimo 8 luglio), la struttura bitontina, che fa capo alla Fondazione “Opera Santi Medici”, ha aperto ieri le porte alla cittadinanza per consentire a tutti di poter constatare con i propri occhi le tante attività che vengono svolte a corollario di un’assistenza medica e psicologica costante, mediante cure palliative che tendono ad alleviare le sofferenze e le angosce non solo del malato ma anche dei familiari che lo supportano in quest’ultima o penultima fase di vita. L’obiettivo è migliorarne la qualità attraverso il controllo del dolore, in un ambiente accogliente e familiare.
Un’eterogenea equipe ci ha guidati nei meandri della struttura, dotata di trenta posti letto in camere singole, aprendoci ad un mondo che spazza via i pregiudizi sull’hospice come “luogo di morte”. L’hospice diventa l’ultima “casa” del malato terminale, il cui nome viene affisso sulla porta della sua stanza, un luogo che può essere completamente personalizzato con piante, quadri, oggetti e persino un animale da compagnia. Perché il paziente in fase terminale non viene considerato un numero di cui prendersi cura ma una persona a tutti gli effetti. E lo si capisce anche osservando i vari luoghi di svago: dalla biblioteca in cui poter instaurare relazioni alla Sala degli Ospiti in cui poter suonare o ascoltare musica stando in compagnia dei propri cari, senza dimenticare l’aspetto spirituale che consente a ciascuno di praticare il proprio credo religioso, qualunque esso sia.
«L’Hospice Day dà la possibilità di aprire le porte del nostro hospice a tutta la città e non solo – dichiara a BitontoLive don Vito Piccinonna, rettore della Basilica dei Santi Medici Cosma e Damiano e presidente dell’omonima Fondazione – anzitutto per conoscere meglio la struttura ma anche per celebrare il decimo anniversario di un hospice che opera con cure palliative. Cure che investono non solo l’ammalato ma l’intero nucleo familiare, che vive un momento di forte interrogazione sul senso della vita e della morte».
«Ciascuna figura dell’equipe – prosegue don Vito – aiuta a raggiungere l’obiettivo di aiutare i pazienti terminali a vivere al meglio l’ultimo periodo della propria esistenza. L’hospice aiuta a costruire una cultura della vita: sembra un paradosso ma, se è vero che non sempre si può guarire, sempre ci si può prendere cura. Fa specie pensare che dietro le porte dell’hospice non ci sono numeri o codici fiscali ma un nome, perché per noi questi ammalati sono dei volti e delle storie. Ed è fondamentale anche l’ultimo tassello delle cure palliative, quando la vita viene a mancare, rappresentato dall’elaborazione del lutto: un contatto tra la nostra equipe e la famiglia del defunto l’aiuta a guardare in faccia l’altra parte della medaglia della vita».