Aveva diciassette anni quando subì uno stupro di gruppo nella cittadella militare della Cecchignola, a Roma. Trentacinque anni dopo, un assessore piemontese si libera di quei fantasmi e racconta la sua terribile storia di violenza e omertà al giornalista Fabrizio Peronaci. L’articolo, pubblicato ieri sul Corriere.it, chiama in causa fra i presunti stupratori due bitontini, all’epoca compagni di leva della vittima.
“Lui nudo, sanguinante. Il maresciallo P. che lo copriva con la giacca. I compagni che lo strappavano dalla branda sghignazzando. Il locale lavanderia immerso nel buio. Il terrore negli occhi. Lo spasso dei depravati. Il dolore da svenire, al risveglio. Il capitano A. che gli gridava in faccia di mentire. Il ricovero in infermeria e poi all’ospedale del Celio. La rabbia impotente, la vergogna…”: sono i frammenti di un incubo che si ripete nella mente di L.D., classe 1964, oggi consigliere delegato alle politiche sociali del suo paese.
Lo stupro avvenne a maggio dell’82. «Quella sera – racconta la vittima – ero appena rientrato dal primo congedo. Prima di addormentarmi nella camerata da sei, sentii che i miei compagni bisbigliavano e ridacchiavano… Non ci badai, non potevo immaginare». Ricorda bene il terzetto: «Uno si chiamava Giovanni ed era di Foggia, gli altri due di Bitonto. Miei coetanei, o poco più. Ma insieme si sentivano invincibili». Tutto accadde in piena notte. «Dovevano essere le due quando mi presero dal letto, mani epiedi… Io cercai di dimenarmi, di scappare in corridoio. Ma loro mi sbatterono la testa sul pavimento e persi una prima volta i sensi…».
Il racconto suscita un orrore smisurato e un senso di nausea e impotenza. Di rabbia verso gli autori materiali dello stupro, e verso gli alti ranghi che li hanno coperti con la consegna del silenzio.
Si potrà far luce su questo crimine dopo trentacinque anni? Sarà fatta giustizia, per restituire dignità a chi ha subito e taciuto per vergogna?