Il nostro "fardello"

Storia e arte, due casi d’incuria

Marino Pagano
Lo stato di degrado del monumento all'artigiano
L'abbandono del monumento agli artigiani. E poi il menhir dimenticato
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Due monumenti diversissimi. Due casi di cui vogliamo parlarvi. Tanto più ci pare giusto farlo nella nostra rubrica, nata all’insegna del peso comunitario, da avvertire sempre e comunque.

Senza eluderne alla radice la necessità civica. Due casi, allora: tra storia e incuria.

Un mistero (o quasi) e una vera vergogna (senza quasi).

Partiamo dal secondo affaire, afferente la condizione, di assoluta trascuratezza, di un manufatto (termine pertinente e vedremo perché) pensato a suo tempo, nel 1996, per abbellire una zona periferica della città e per rendere omaggio alla storica tradizione dell’artigianato locale.

Siamo appunto nella zona artigianale, subito a destra dopo il passaggio a livello di via Angelini, su via Paolo Scoppio. Ebbene, qui giace, nella più completa indifferenza, oltre che in totale stato di degrado e sporcizia, un monumento prettamente artistico realizzato dalle sapienti mani (ecco perché “manufatto”) di Pantaleo Avellis, noto scultore bitontino, da tutti apprezzato come autorevole maestro d’arte.

Fu lui a realizzare, per conto della sezione cittadina della Confederazione nazionale dell’artigianato, l’opera che vedete in foto. Opera da salvare e da riportare subito alla giusta dignità.

Si tratta di una scala di pietra bianca alta sette metri, riflessa in quello che doveva essere un vero e proprio specchio d’acqua. Rappresenta la “scalata” dell’artigiano, la sua crescita professionale e poi sociale per la città tutta.

Solenne inaugurazione, all’epoca. Presenti tutti: politici, artigiani, autorità.

La città ingentiliva uno spazio apparentemente marginale, desideroso di diventare magari cuore pulsante dell’economia, cosa che non è ancora espressamente avvenuto per diverse ragioni, che non è qui il caso di analizzare.

Parliamo di un angolo che in pochi conoscono, nonostante con l’auto si passi un po’ tutti da lì. La vegetazione d’attorno, che pure andrebbe urgentemente curata e salvaguardata, copre dalla strada la vista del lavoro di Avellis, in più lo stesso è vergognosamente ricoperto di scritte, volgari raffigurazioni, circondato inoltre di sterpaglia.

Ma soprattutto di tanti improvvisati rifiuti portati lì dall’inciviltà di alcuni nostri concittadini (termine questa volta inappropriato: il cittadino o è consapevole o non è) oppure accasati all’ombra del monumento per effetto della forza del vento. E l’acqua? Mai partita.

Eppure, sarebbe bastato un collegamento alla linea elettrica.

Un comunicato diffuso nel 1996 dalla Cna (allora presieduta dalla futura consigliera comunale Ezia Di Carlo) definiva la scultura uno spazio dove “le arti si incontrano, quelle più umili con quelle più nobili, nel segno di una più umana misura del vivere civile e dei luoghi della città”. Appunto.

Quando le parole dovrebbero avere un senso.

Ezia Di Carlo, come presidente protempore della Cna, fu mossa da ottimi intenti. Ha provato a far tornare l’attenzione sul caso anche da consigliera comunale durante l’era Valla.

Non siamo riusciti a risalire precisamente al testo della convenzione tra Comune e Cna (se effettivamente talo atto esiste, tra l’altro), ma certo l’opera non è di proprietà della Confederazione, come proprio la Di Carlo ci ha confermato.

Crediamo sia comunque arrivato il momento, da parte della città stessa e delle sue istituzioni, di passare a fatti concreti. E i fatti non possono che dire rispetto per la bellezza, per l’arte, per un nostro grande artista, per il tema dignitoso del lavoro, per la civiltà stessa.

Questo al di là delle reali competenze specifiche del caso.

Nessuno può restare insensibile, esiste un decoro che è interesse di tutti ripristinare. Da più di vent’anni dura un oblio increscioso su questa faccenda ed è ora di porvi rimedio.

Una città che non combatte i luoghi dell’inciviltà è una contraddizione (persino etimologica) in termini.

Su, diamoci da fare.

Ecco poi il caso del menhir detto “del Vico”, storica pietra megalitica scomparsa qualche tempo fa dalla sua naturale collocazione. Rientra tra i tanti tipi di strutture simili, figure atavicamente legate ai territori sin quasi dai primordi della storia dell’apparizione dell’uomo.

Il “gigante” era situato sulla via intercomunale detta anche “Boscariello”, al confine tra Bitonto e Terlizzi.

Acquisiamo la notizia della sparizione da Pasquale Fallacara, appassionato di beni culturali bitontini, collaboratore del mensile Primo Piano e di altre testate, ispiratore della seguitissima pagina Facebook “Bitonto da riscoprire”.

Testimonianza storica studiata a suo tempo anche da Antonio Castellano, resto della centuriazione romana, risulta citato nei documenti sin dal XIII secolo.

Fu abbattuto da ignota e ferina mano nel 2007, lasciato poi a terra nel suo punto più o meno originario.

La notizia è che oggi riappare, a dieci anni dalla violenta estrazione dal terreno (cosa non propriamente facilissima, date le dimensioni del monolite), all’interno della sede terlizzese del Mercato dei Fiori, forse, azzardiamo, portato lì per futuri interessi di tutela e ricerca.

Lo abbiamo appreso da post e articoli della collega terlizzese Mariateresa Foscolo, archeologa di formazione.

Fallacara ha prontamente scritto alla Soprintendenza e all’amministrazione comunale di Bitonto, territorio in cui ricade il menhir, perché si provveda a salvarlo, magari riposizionandolo dove è stato pensato dai nostri progenitori, con l’ausilio di un’adeguata cartellonistica.

Quali che siano gli sviluppi futuri del fatto, sarebbe cosa buona e giusta, intanto, vigilare e proteggere queste straordinarie eredità del nostro passato.

Parole nel deserto? Può darsi.

Tacere però sarebbe decisamente peggio e, per il nostro particolare ruolo, imperdonabile.

giovedì 22 Giugno 2017

(modifica il 28 Giugno 2022, 23:20)

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