Cultura

Domenico De Facendis, un bitontino tra le tempeste del secolo

Marino Pagano
La lapide dedicata a Franciscus De Facendis
La carriera di un diplomatico da riscoprire
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La storia politico culturale del ‘900 bitontino è particolare.

Se da un lato, forse, non abbiamo avuto nomi di massima rilevanza nazionale, dall’altro possiamo contare sull’esperienza e l’abilità di tanti protagonisti dietro le quinte, ad un tiro di schioppo dalle istituzioni maggiori, vicinissimi alle più determinanti “stanze dei bottoni”. Si pensi al confronto con la vicina Molfetta. Da Gaetano Salvemini fino al salentino vescovo don Tonino Bello, passando per il teorico fascista Sergio Panunzio, fino a personaggi in vista della prima e seconda Repubblica, la città marina ha offerto un suo lascito importante.

Bitonto, pur vantando in passato diversi parlamentari, ha dovuto giocare un po’ dietro le quinte, forse penalizzata dalla vicinanza immediata con Bari, oppure dalla perdita della stessa diocesi. E quando non sono mancati uomini di rilievo nelle istituzioni, questi, pur legati alla città, erano eletti e residenti altrove. Due nomi su tutti: i democristiani Italo Giulio Caiati e Arcangelo Lobianco, rispettivamente brindisino e napoletano d’adozione.

Lobianco, classe 1929, più volte sottosegretario, parlamentare dal 1968 al 1994, una vita nella Coldiretti, torna almeno una volta all’anno nella città natia, mentre Caiati, costituente, parlamentare dal 1946 al 1983, anch’egli sottosegretario e ministro con Leone e Andreotti, è morto nel 1993.

Affronteremo oggi una di quelle figure apparentemente appena ai margini della storia, eppure a stretto contatto coi potenti, di cui anzi calibravano o meglio cercavano di direzionare le scelte.

È il destino dei diplomatici: restare nell’ombra, pur in posizioni delicatissime. Bitonto, nel XX secolo, ha avuto un concittadino su cui poco o pochissimo si è scritto, nonostante la quantità di suggestioni e ricerche che il suo nome, per via degli incarichi ricoperti, potrebbe ispirare.

Ci riferiamo a Domenico De Facendis, ambasciatore e ministro plenipotenziario, nato il 12 agosto del 1884 e scomparso il 9 luglio del 1967, cinquant’anni fa.

Innanzitutto, il nome: De Facendis. Si tratta di un casato importante, originario della Spagna, giunto a Bitonto, scrive Giuseppe Pastoressa nel prezioso “Brevi cenni biografici sugli illustri bitontini”, durante la dominazione asburgica.

La famiglia fu legata ai Borbone, se è vero che nel 1741, sette anni dopo la Battaglia di Bitonto che diede il trono del Sud a Carlo III, lo stesso sovrano e la consorte Maria Amalia di Sassonia proprio da casa De Facendis (oggi via Cavallotti: palazzo con chiesa di San Vito, per intenderci) ammirarono l’area dove si era svolto l’episodio d’arme.

Intitolata ai De Facendis è la cappella di Sant’Irene, nella chiesa di San Francesco di Paola, recentemente oggetto di uno studio a cura di Domenico Schiraldi. Un nipote omonimo dell’ambasciatore, infine, è oggi magistrato e presidente del Tribunale di Bari.

Domenico De Facendis fu allievo di Sidney Sonnino, quando il politico pisano ricoprì il ruolo di ministro agli Affari Esteri nel secondo governo a guida del pugliese Antonio Salandra, con risvolto fondamentale nell’entrata in guerra dell’Italia nel 1915. Come giurista, De Facendis ebbe invece per maestro Vittorio Scialoja, ministro della Giustizia e poi agli Esteri nei primi decenni del secolo. Il nostro era entrato nella carriera consolare già nel 1908. Dapprima viceconsole italiano in Brasile e Albania (1909 e 1911, con patente di console) e poi console effettivo in Marocco, fu ministro plenipotenziario in Turchia.

Per l’impegno nei Balcani, console a Scutari (1914), si guadagnò anche la medaglia di bronzo al valor militare per il coraggio mostrato nella Grande Guerra. Riferimenti a lui nel testo “Tra continuità e incertezza. Italia e Albania (1914-1939). La strategia politico-militare dell’Italia in Albania fino all’operazione Oltre Mare Tirana”, a firma di Massimo Borgogni, edito da Franco Angeli nel 2007. Lo ritroviamo poi nel Pireo, come console generale (1921), console reggente della nostra legazione ad Atene (tra il ‘22 e il ‘24) e primo console (ancora ’24). Rappresentò l’Italia in Persia tra il 1926 e il 1927, sempre ministro plenipotenziario, un incarico che, ipotizza il Pastoressa, De Facendis poi lasciò per sopraggiunti disaccordi col regime fascista.

Ma fu durante gli anni ‘30 che il diplomatico pugliese svolse un ruolo delicato quando fu nominato a capo della delegazione diplomatica italiana in Cecoslovacchia, a Praga, ambasciatore dal 26 luglio del 1935 al 20 giugno del 1938, in pienissima era fascista. In queste vesti, il bitontino fu in relazione con Galeazzo Ciano, genero del Duce Benito Mussolini, ministro degli Esteri.

Furono frangenti davvero spinosissimi.

Dopo l’annessione austriaca da parte di Adolf Hitler (marzo ’38), la Germania pose gli occhi proprio sulla Cecoslovacchia, trovando come pretesto le presunte violazioni di libertà sofferte dai cosiddetti Tedeschi dei Sudeti, residenti cioè a nord e a ovest del Paese, terre a cultura germanica. Queste zone di confine erano considerate aree grimaldello per l’occupazione di tutta la nazione.

La conferenza di Monaco (settembre 1938) assegnò le terre alla Germania. Fu l’inizio del dramma. I tedeschi si rinforzarono, in più fu cancellata dalle cartine geografiche uno stato in cui da secoli convivevano popolazioni ceche e tedesche, in Boemia e Moravia. Al momento di Monaco, De Facendis, intanto, non era più ambasciatore. Prima però aveva inviato numerosi telegrammi e lettere per corriere a Ciano sulla pericolosità ed emergenza della situazione, soffermandosi anche sulle pretese ungheresi sulla Slovacchia. De Facendis è coraggioso. Esprime senza riserve, seppur con cautela, timori per gli sviluppi della politica tedesca e rammarico per l’atteggiamento dell’Italia. Egli è un liberale, probabilmente in coscienza disapprova.

De Facendis sembra biasimare anche l’atteggiamento inglese, dalla storiografia poi discusso (si pensi a cosa ha significato proprio Monaco). Della questione sudeta l’ambasciatore segue tutte le fasi, ora calde ora più rilassate, pur nella tensione del caso.

I primi mesi del ’38 sono dunque complicati. E De Facendis vive direttamente il tutto. In un dispaccio Ciano arriva anche a chiedergli ragione di alcuni aiuti militari forniti dai cecoslovacchi ai ribelli contro gli italiani in Etiopia.

Ecco poi alcune parole di De Facendis a Ciano, datate 9 maggio ’38: “La Cecoslovacchia deve riflettere seriamente sulla sua posizione e sulla sua difficile situazione militare. Se ha ragione di contare su aiuti della Francia e della Russia, deve pur riflettere che tali aiuti richiederebbero ben più tempo ad arrivare di quello che la Germania impiegherebbe per occupare il territorio cecoslovacco. Una volta l’occupazione effettuatasi, le difficoltà per mettervi termine sarebbero ben gravi”.

La documentazione è ingente, atti leggibili grazie all’archivio dell’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito.

Dopo queste esperienze, che profondamente lo segnarono, Domenico De Facendis si ritirò a Bitonto, nella sua casa in via Repubblica, dove come detto si spense nel 1967. Tanti gli inviti a candidarsi alle elezioni politiche, forse arrivati dai liberali. “Uomo di grande levatura morale, pur dichiarandosi disponibile, preferì vivere quasi in esilio volontario”, scrive ancora Pastoressa.

Un’altra figura, quella del diplomatico bitontino, su cui potrà e dovrà farsi ancora più luce.

giovedì 30 Novembre 2017

(modifica il 28 Giugno 2022, 22:00)

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Vincenzo Robles
Vincenzo Robles
6 anni fa

Interessante l'argomento e ottimo il commento.