Attualità

Caterina Ferri: “La malattia mentale è un tappeto di sale”

Mariella Vitucci
Gli ospiti del centro diurno in gita scolastica con le ragazze del liceo di Terlizzi
Intervista alla coordinatrice del centro diurno Anthropos di Bitonto, che da 25 anni offre sostegno terapeutico ai pazienti psichiatrici
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Da venticinque anni rappresenta un punto di riferimento per i pazienti con problemi psichiatrici che hanno bisogno di sostegno terapeutico. Il centro diurno in via Capaldi è una delle due strutture della cooperativa sociale Anthropos a Bitonto.

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Aperto tutti i giorni, dal lunedì al sabato, dalle 9 del mattino alle 7 di sera accoglie venti ospiti, che arrivano non solo da Bitonto e frazioni ma anche da Bari e dai comuni dell’hinterland. A seguirli è un’equipe di educatori professionali, assistenti sociali e operatori sociosanitari a cui si affiancano un terapista della riabilitazione psichiatrica ed una psicologa psicoterapeuta, tutti coordinati da Caterina Ferri.

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Per lei, che arriva da Valenzano, il centro è diventata la seconda casa. “Sono qui ogni giorno da vent’anni – racconta a BitontoLive – e ho perso il conto dei pazienti e dei collaboratori che ho visto passare. Il team che mi affianca ora è giovane, preparato e molto motivato. Si lavora bene e c’è un bel clima”.

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Per ogni paziente – spiega – viene predisposto un programmi terapeutico personalizzato, di concerto con il Centro di Salute Mentale che ne verifica i risultati ogni sei mesi. L’obiettivo è il miglioramento psicosociale degli ospiti, attraverso laboratori espressivi, manuali e culturali, attività sportive, formative e prelavorative: esperienze di condivisione svolte anche all’esterno, in un’ottica d’integrazione sociale con il territorio.

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I pasti si preparano “in casa”, nella cucina del centro, e si consumano tutti assieme in sala da pranzo. Al servizio mensa provvede una cooperativa integrata che si occupa anche delle pulizie, nella quale lavorano anche ex utenti delle strutture Anthropos. 

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L’utenza – racconta Caterina Ferri – è diventata via via più giovane, e già da dieci anni si lavora su dipendenze “nuove”, come quella da Internet.

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Durante il lockdown il centro è stato chiuso agli ospiti e le attività si sono svolte a distanza: solo chiamate, perché non tutti hanno un cellulare e pochissimi uno smartphone. Anche se nel gruppo c’è un’eccezione: un “genio” dell’informatica di 32 anni, che aiuta gli altri. 

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Da fine aprile 2020, in applicazione delle restrizioni imposte dal Covid, il centro è frequentato a giorni alterni da dieci pazienti. Anche il problema del trasporto – ci spiega la coordinatrice – lo impone, perché provengono da Corato, Ruvo, Modugno, Bari, e organizzare l’utenza in due turni nella stessa giornata è impossibile. Ogni giorno, prima dell’arrivo in struttura, i pazienti vengono sottoposti a triage telefonico, per sapere se hanno febbre, tosse o sintomi allarmanti. Massimo rigore nell’osservanza delle regole di igienizzazione e sanificazione degli spazi, e divieto di uscire dal centro per una passeggiata.

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“Sono persone particolarmente fragili. Il nostro sostegno durante i mesi di chiusura – ricorda Ferri – è stato fondamentale per sottrarli all’isolamento: nelle telefonate quotidiane ci raccomandavamo di evitare di uscire e, se proprio necessario, di igienizzare le mani e indossare sempre la mascherina. E devo dire che ci hanno ascoltato, sono stati bravi. Abbiamo anche organizzato un laboratorio aperto a distanza, per stimolarli a coltivare i propri talenti e a non restare inattivi”.

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Le videochiamate, ormai irrinunciabili, per queste persone rappresentano invece un grosso problema: per difficoltà cognitive e altri limiti, non solo strumentali, hanno difficoltà ad utilizzare il cellulare, che in alcuni casi altera il loro equilibrio.

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“Solo chi vive ogni giorno al loro fianco – sottoliena Caterina – può comprendere come possano essere complicate cose apparentemente banali, come l’uso del telefono. La malattia distrugge come un tappeto di sale. Ecco perché nei laboratori li impegniamo a riscoprire competenze e talenti sepolti, come il ricamo a punto croce, il lavoro a maglia, il suono di uno strumento musicale, la pittura. Assegniamo loro compiti quotidiani, e questo li aiuta”.

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Il tempo di permanenza dei pazienti nel centro diurno varia a seconda del piano terapeutico individuale. La malattia non ha un decorso prevedibile e non sempre fa marcia indietro, ci sono casi in cui la riabilitazione non funziona. Ma ci sono anche tanti casi postivi, di pazienti che migliorano e rientrano in famiglia, riscoprono abilità o imparano nuove competenze, fanno la spesa per i genitori anziani.

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Le famiglie di provenienza degli ospiti sono chiamate ad un’alleanza con gli operatori. Vengono coinvolte in progetti e attività, anche se ora tutto è sospeso a causa del Covid.

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“Quando iniziai a lavorare con i pazienti psichiatrici – ricorda Caterina Ferri – uscivano dai manicomi ed erano sedati da anni di terapie. Fuori da lì, tornavano a vivere. Ora gli utenti sono più giovani, in molti casi portano le cicatrici del bullismo subìto negli anni della scuola. Sono meno rispettosi e più aggressivi, spesso si rifiutano di comunicare. Oppure sono vittime di dipendenze, negli ultimi anni soprattutto da Internet. C’è un disagio strisciante e ci sono fragilità che non riescono ad emergere. Quando un ragazzo si chiude in casa e si rifiuta di uscire, le famiglie fanno finta di niente e sopportano la situazione perché non accettano l’idea della malattia mentale. Così passano anni prima che chiedano aiuto, e spesso è troppo tardi”.

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Isolamento ostinato, tristezza permanente, dipendenza dai videogame sono campanelli d’allarme. Lockdown e dad hanno peggiorato la situazione: i ragazzi sono passati dal 7 al 27% di tempo quotidiano passato al cellulare. “Ecco perché sta nascendo un movimento per la scuola in presenza, perché troppi si stanno isolando, accusano attacchi di panico e di ansia. I ragazzi hanno bisogno di ritrovare la socialità. Il mondo della scuola pagherà le conseguenze di questo sconvolgimento”, dice Caterina Ferri.

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Il centro diurno lavora moltissimo con il territorio. “A Bitonto – racconta – sono state realizzate esperienze teatrali molto belle, il Festival Anfiteatri per due anni, e poi diversi progetti con il liceo psico socio pedagogico di Terlizzi. L’esperienza più coinvolgente risale a sette anni fa, quando – a conclusione del progetto Diario di Bordo – una classe di quattordici studentesse condivise la gita d’istruzione di fine anno scolastico con i nostri ragazzi: un viaggio di sei giorni con tappe a Venezia, Padova e Trieste. Ricordo i loro sguardi smarriti alla partenza. Nonostante il percorso di nove mesi compiuto al fianco dei nostri ospiti, erano intimorite. Ma a fine gita, quando scesero dal pullman, furono baci, abbracci e pianti. È una scena scolpita nella mia memoria, perché il muro dello stigma era stato davvero abbattuto”.

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giovedì 21 Gennaio 2021

(modifica il 28 Giugno 2022, 14:11)

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